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Un approccio tassonomico al coworking

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Sono sempre stato affascinato dalla trasformazione continua della lingua italiana, dalla nascita dei neologismi e dall’incursione di termini stranieri, fulgidi esempi del nostro animo profondamente esterofilo. Eppure ci sono casi in cui una parola straniera riesce a sintetizzare in modo impeccabile un concetto che in italiano non riuscirebbe ad essere espresso con meno di 3-4 termini. E’ questo il caso del coworking.

Come sarebbe possibile esprimere con sole parole italiane un concetto che mette insieme uno spazio fisico ed una filosofia, un insieme di risorse ed un approccio profondamente collaborativo? Io c’ho provato ma i risultati sono stati così penosi da farmi gettare la spugna. Così i pochi attori del coworking della mia città si sono decisi ad imporre questo termine rispetto al quale la maggior parte delle persone inarca il sopracciglio ma contemporaneamente annuisce, cimentandosi in espressioni a metà fra il “di che diavolo stai parlando?” ed il “facciamo finta che io sappia di cosa stai parlando altrimenti passo per uno out”. Come fargliene una colpa?

Ad ogni modo c’è da dire che siamo all’inizio di un processo di trasformazione e servirà un po’ di tempo perché il concetto sia chiaro, diciamo, almeno alla metà dei nostri interlocutori. Ad una maggioranza di persone che non hanno alcuna familiarità con il coworking, si contrappone tuttavia una minoranza che nel termine ha trovato la perfetta sintesi di un’insieme di valori già in proprio possesso: condividere, collaborare, fare squadra, ottimizzare, contaminare, creare, trasformare, mettere in discussione. Ed è proprio a quella minoranza che mi rivolgo oggi, per sottoporle il mio approccio tassonomico e classificatore al coworking che apparterrebbe più ad un biologo che ad un ingegnere informatico.

Premessa: per gli addetti ai lavori esistono due modelli di coworking ai quali sono stati dati i nomi di coworking di prima generazione e coworking di seconda generazione.

La prima categoria comprende quegli spazi condivisi nati con lo scopo di ottimizzare l’uso delle risorse, abbattere le spese di uno studio professionale, realizzare un ambiente lavorativo dinamico e stimolante, superare i limiti incontrati da quanti lavorano a casa per poi magari fare le riunioni al bar.

Alla seconda categoria appartengono tutti quegli spazi che hanno fatto propri i principi e le dinamiche di quelli della prima generazione ed hanno pensato di andare oltre. Hanno pensato che l’unione in uno stesso spazio fisico di tante professionalità, anche molto distanti tra loro, potesse e dovesse portare ad uno scambio, ad una mutualità ed a un processo di integrazione che permettesse di approdare a progetti condivisi, collaborazioni concrete e, perché no, a presentarsi sul mercato con la forza di un team dinamico in grado di soddisfare con competenze specifiche le più disparate richieste di prodotti e servizi.

Oggi Palermo vanta la presenza di spazi di coworking riconducibili all’una o all’altra categoria. I diversi gruppi che hanno dato vita alle realtà oggi presenti nella nostra città stanno cercando di capire giorno dopo giorno come potrà evolvere questo fenomeno nel prossimo futuro ma è forte la sensazione di essere già arrivati al punto di dover constatare la nascita di una terza categoria, la nascita del coworking di terza generazione.

Perché il concetto vi sia chiaro, immaginate un coworking di seconda generazione. Come abbiamo detto, esso è un’evoluzione della prima categoria ed aggiunge alla mera condivisione di uno spazio dinamico, stimolante e professionale, un processo di costante scambio tra i coworker al fine di potenziare le professionalità che essi esprimono.  Quello che abbiamo potuto riscontrare nel contesto palermitano è che tutto questo non è stato sufficiente. I principali attori del coworking made in Palermo hanno subito sentito il bisogno di aprirsi anche alla città, di concepire e realizzare progetti per il territorio, di estendere il proprio raggio d’azione ben oltre le mura del proprio spazio coinvolgendo un numero ben più grande dei coworker residenti. Progetti in grado di dare risposte concrete alle sfide che si prospettano a fronte del declino dei vecchi modelli. E tutto questo probabilmente perché i primi a puntare su questa formula appartengono tutti al terzo settore, l’unico comparto in grado di incarnare il cambiamento della società civile. Organizzazioni come la nostra avvertono la necessità di trovare definizioni condivise, termini univoci all’interno di un panorama in costante mutamento. Proprio quando il mondo del lavoro si interroga sul proprio futuro, mi sento di rispondere partendo da una banale classificazione che possa però gettare le basi per il concreto dialogo tra quanti credono in nuovi modelli di sviluppo.

Riassumendo: dando per buona la classificazione riconosciuta di coworking di prima e seconda generazione, Palermo sta dimostrando che è tempo di riconoscere l’esistenza di un terzo modello, un modello di terza generazione. Signori e signore, salutate l’avvento del coworking 3.0.

PS: non esitate a commentare questo articolo per farmi capire se pensate che questa sia una strada percorribile.