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Sementor. Fiducia e disincanto. Atto primo.

Abbiamo deciso di pubblicare sul nostro blog questa testimonianza inviataci da una partecipante a “saracinesche creative”. Si chiama Serena e ci ha fatto un bellissimo regalo.

Aurora, Paola, Alessandro, Vincenzo, Debora. I loro nomi li ricordo appena – troppi, alcuni neanche uditi – ma ho guardato bene i loro volti, volti come il mio, segnati da piccole rughe tipiche di chi appartiene a una generazione che non può permettersi di sognare troppo. Sguardi bassi, distratti o corrucciati, visi perplessi o attenti, labbra serrate e asciutte, pose impacciate, sorrisi, pupille rapide che esplorano l’ambiente.
Arrivano alla snocciolata, soli o in piccoli gruppi, saluti timidi, tentativi di presentazione, “cosa ci faccio io qui?”, sembra pensare qualcuno, “chissà che progetti hanno loro”, si chiedono altri. Diffidenza e curiosità, aspettative e cautela, mentre un bicchiere di vino rosso tra le dita ci mette a nostro agio e l’aroma dell’olio fresco sul pane rende l’attesa più piacevole.
C’è un’idea in ognuna di queste menti, penso, e mi concentro ancora sui volti. Difficile capire chi di loro vuole creare, confezionare, vendere o intrattenere e nessuno sembra aver voglia di capire di che colore è quel filo sottile che unisce i ventuno desideri racchiusi in quella stanza. Oppure un’inspiegabile forma di prudenza impedisce alla curiosità di avere il sopravvento. Poche domande, qualche risposta, è arrivato il mentore, si comincia.
La storia di una vita è sempre affascinante, ma può diventare addirittura avvincente se il racconto trasuda passione. Non voglio raccontarmi fandonie, se mi domandassero quante informazioni pratiche ho ricavato da queste due ore, sarei costretta ad ammettere che speravo fossero di più, soprattutto per una come me che può offrire solo un’idea, condita dalla totale assenza di competenze imprenditoriali. Eppure le parole mi prendono per mano, mi accompagnano sul sentiero di una vita di successo, dove il successo non è puramente il guadagno, è quella sensazione ormai così rara di poter dire a se stessi che si vive facendo ciò che si desidera fare. La realizzazione, ecco, la certezza che in nessun altro modo la propria vita avrebbe potuto essere più ricca di così, denaro a parte. Riesco a rivedere quel giovane uomo laureato, master alle spalle, dottorato di ricerca, con un mestiere tra le mani che arricchisce parecchio il suo conto in banca ma poco il suo spirito, posso cogliere il lampo di sfida che attraversa i suoi occhi quando decide di mollare tutto e dare voce alle sue aspirazioni. È sorprendente come il suo esordio imbarazzato, smarrito nella convinzione di aver poco da dire, abbia lasciato il posto a un fiume di ricordi che inonda la stanza di entusiasmo palpabile, mentre mi conduce con lui nella Palermo degli anni ’80, in luoghi a me familiari eppure così sconosciuti, nelle stanze della burocrazia farraginosa, negli uffici di gente che promette e non mantiene, nelle banche, per la strada, in casa sua, di notte, quando mille pensieri allontanano il sonno ma non fiaccano la tenacia. “Io ce l’ho fatta” sembrano urlare i suoi gesti, “ma non è mai facile, anzi, è piuttosto difficile” afferma la sua storia.
Sento serpeggiare, vibrante, lo scetticismo dei più: lui aveva i soldi. Qui non ne ha nessuno, è evidente. Non si può diventare imprenditori per avere uno stipendio a fine mese, sacrosanta verità, ma ci scommetto il mio bicchiere di vino, qui la ricerca del profitto cammina a braccetto con la realizzazione del sogno e per una generazione che sta toccando il fondo a piene mani è sacrosanto anche questo. L’uomo soddisfatto della sua vita, che stasera ha fatto da mentore a ventuno semi impazienti di germogliare, carezza e schiaffeggia i nostri sogni, li sfiora e li accoglie senza conoscerli, eppure è così lontano da noi. Vicino e lontanissimo.
Guardo l’orologio, le dieci e dieci. Le parole sfumano via, le sedie fanno rumore, si raccolgono borse, giacche e riflessioni. “Volete presentarvi? Non lo abbiamo fatto all’inizio… oppure ci presentiamo martedì prossimo”. Resto seduta, mi guardo attorno. Sono certa che in quella stanza ci sono altre venti idee degne di attenzione, migliori della mia, sono impaziente di entusiasmarmi per ognuna di loro, o forse per una soltanto.
Molte gambe sono già nell’atrio, “A martedì prossimo! Ciao a tutti!”. Ricaccio in gola la mia smodata curiosità, convincendomi sempre di più che possa piuttosto essere indiscrezione.
Il piccolo sciame di speranze è volato via, verso la propria realtà quotidiana. Si torna a casa, si entra in punta di piedi per non svegliare bambini, mariti, mogli, compagni, genitori. Ma il tragitto è lungo e stanotte voglio guidare senza fretta. Accendo la radio, magari trovo una canzone degli anni ’80. Le finestre illuminate di via Roma mi scivolano accanto, conto le saracinesche chiuse per la notte e quelle serrate ormai da anni. Chissà, tra pochi mesi potrebbero aprirsene di nuove, ventuno, ma sorrido pensando che sarebbe bello se ne venisse aperta anche una sola. E, detesto ammetterlo, mi importa poco che probabilmente non sarà la mia.