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SAFAR – dal mandamento “Tribunali” fin oltre le mura, verso le antiche Residenze normanne.

Percorro gli spazi “eletti” nei pressi della chiesa della SS. Trinità, dove piccioni come “masse” vengono voraci alle briciole in terra, secondo bizzarre prelazioni e oligarchie, mentre bacchini adolescenti corrono dietro al futuro lercio e violento. I vecchi stanchi, non guardano che nel vuoto. Della Dopostoria. Indifferenti ai canoni dell’architettura arabo-normanna.

Nel mandamento della Kalsa, poco distante dal Palchetto della Musica, qualcuno seppellisce o disseppellisce qualcosa: una discreta distanza non rende agevole l’osservazione. Il mio stomaco ha un sussulto, assisto in disparte. Che bel paese sarebbe il mondo togliendo le fumose distanze tra i fatti e gli sguardi. Addio “cosa” ch’emergi o sprofondi. Addio, e passo oltre. A presto.

E’ labirintico il grand tour! il percorso si fa intricato d’impressioni, citazioni, memorie sovrapposte, sogno e immaginazione. I pieni e i vuoti, non convivono in armonico equilibrio, si disprezzano l’un l’altro.

Ora procedo lungo l’asse di via Alloro: palazzo Abatellis, palazzo Castrofilippo…

Idealmente attraverso la “Porta Senza Nome”, abbandono alle mie spalle la “cittadella del sultano” per raggiungere il Cassaro. Perdono il passo alcuni tra i più bei palazzi della Palermo settecentesca; rimane indietro piazza Marina e il ficus magnolioides di villa Garibaldi, una specie di mostro arboreo, posto di fronte allo Steri, in un sentore di cenere e sangue, con qualcosa di demoniaco e di carnivoro, simbolo sinistro della storia della Sicilia, pauroso emblema dell’imprevedibilità della natura, dell’annichilazione del Sant’Uffizio dell’Inquisizione e della giustizia che punisce il braccio che ha fallato, recidendolo.

Vado incontro a una città nebulosa, fin troppo eterogenea, complessa, invasa da archetipi a me estranei, dal caos avanzo verso l’autentica città imperfetta, umana, affettuosa, drammatica, istrionica, sperimentale e al contempo ritualistica.

Dove un tempo lo Stato e il Principe avevano tracciato il loro passaggio, le decorazioni murarie si fanno slang dell’iperuranio iperurbano, che altro non è se non giovanilistico graffitismo.

Più in là, i nomi delle viuzze ricordano operose botteghe, e in effetti m’imbatto in un gran numero di saracinesche chiuse: ne arguisco che molti artigiani e commercianti avranno a lungo vivacchiato nel loro cosmo di zineffe, pentoloni e padelle, bracieri, chiodi, pelli, botti, profumi, selle, strumenti musicali, nel pieno fervore e fulgore della vita corporativa dei secoli andati.

Risalendo lungo i mercati, il quadrante punico, superando le antiche mura e i principali simboli dell’Islam in Sicilia, m’invischio in luoghi sprovvisti di qualsiasi ossatura urbana, privati affatto della loro essenzialità.

I palazzi odorano di muffa, i portoni tacciono le disgrazie ingarbugliate di uomini e donne, le nicchie sono per mettersi le mani addosso o per nascondersi o rimanere asciutti col temporale che impazza o per uccidere lividi di bile.

E cammino tra vasti appezzamenti edilizi privi di ogni consequenzialità.

Con la mano sfioro gli edifici annerati dallo smog, li scandaglio palmo a palmo, centimetro per centimetro lungo tutto il costruito, eppure non potrei descriverne l’aspetto che sommariamente, per grandi salti, interrompendomi  per richiamare i ricordi sfuggenti.  I vicoli sono disordinati, pieni d’incognite e sorprese. Alcune strade sono ingombre d’immondizia. E’ tra i rifiuti che dovrebbe nascere un nuovo mondo? con nuove leggi perché non c’è più legge e un nuovo onore dove onore è disonore?

La città ricomincia a essermi nemica, a ogni svolta. Cantieri, mareggiate di cemento, coprono interi orizzonti. L’architettura propria dei climi sahariani, che pure era stata a suo tempo “nomade”, in perenne lotta con la stanzialità, per esistere non può che fermarsi, gravare, sventrare.

Reclamavo la sera ed eccola che scende.

Eccoci.

La piatta superficie non è più un valore mentre scende la notte, come ben suggerisce un certo Ugo Rosa. Ciò che conta adesso è massimamente lo spigolo, il padrone dell’oscurità, che  definisce i contorni, evocando la solidità delle cose e il loro compatto, limitato esistere. Verso lo spigolo sguazzo tentoni cercando in esso la mia stella Polare. Nella notte, infine, guardo la notte. Ebbene sì, Marco guarda la notte e s’immagina come un novello Fabrizio Salina: “Io ti amavo mondo. Ti amo ancora. Non posso che dividerti con altri perché tu sei me. Sei la mia anima”.

Ho dunque viaggiato perfino nella notte e la terra non è riuscita a inghiottirmi nella voragine. Adesso sono talmente curvo che vedo solo i miei piedi… yawn, un ultimo sbadiglio, è ormai mattina. Spengo la sveglia  e incomincerò a dormire, riposerò, riposerò, riposerò tanto, fino a coincidere, per espansione con l’universo intero.